Non sei registrato? Registrati

17 maggio 2021

COVID, QUALE LEZIONE ABBIAMO APPRESO

Cent’anni, dalla spagnola al COVID 19 e sono forse passati invano?

Nel gennaio 1918, a Haskell in una sperduta fattoria della contea del Kansas degli Stati Uniti, un medico locale documenta alcuni casi di polmoniti fulminanti senza però avere alcun seguito alla diffusione epidemica. Nel frattempo alcuni giovani del posto vengono arruolati e inviati nei diversi campi di addestramento del paese: gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro la Germania. Su 24 campi per reclute e in 30 città è documentato la presenza di questa influenza già a fine aprile. I soldati americani arrivano in Europa, e qui l’influenza si diffonde.

La chiamano così perché questa a fine giugno scompare e verrà catalogata come influenza per l’appunto.

Ma dopo l’estate, a fine ottobre il virus si ripresenta mutato e in forma più letale. E si cominciano a contare migliaia di morti, soprattutto favoriti dalle scarse condizioni igieniche delle trincee. Proprio perché c’è la guerra che la censura bolla questa epidemia come influenza. Ma proprio tramite i servizi logistici e i soldati che tornano a casa in licenza, che il morbo si diffonde nelle città e nella popolazione civile. Saranno le autorità della Spagna, un paese neutrale che quindi non ha la censura, che lanceranno l’allarme per questa emergenza sanitaria che si sta diffondendo ovunque.

Ed è per questo motivo che verrà bollata come l’influenza “spagnola”, proprio perché questo paese è stato il primo a dare l’allarme, ed è il nome come la conosciamo oggi. Dal 1918 al 1920, la spagnola farà milioni di vittime, si stima tra i 50 e i 100, e contagerà mezzo miliardo di persone, soprattutto per broncopolmoniti secondarie batteriche: la medicina non conosceva ancora gli antibiotici che conosciamo noi oggi. Le società di fine ottocento era caratterizzate da una fortissima diseguaglianza: la classi più ricche possedevano il 90% della ricchezza di tutto il paese, sia in Europa che negli Stati Uniti. Questa enorme tragedia, sommate alle due guerre, cambiò il modo di gestire la cosa pubblica. Le tasse aumentarono, i costi per fronteggiare le crisi sanitarie salirono esponenzialmente. Si doveva arginare, ma nel contempo prevenire eventuali e successive crisi sanitarie ed economiche: nacque il Welfare, lo stato sociale. Venivano distribuiti servizi pubblici ai cittadini, proprio perché ci si rendeva conto che le emergenze hanno un costo elevatissimo.

Dopo diversi decenni, la diseguaglianza sociale è tornata a capeggiare nelle società occidentali: l’1% della popolazione detiene il 90 % della ricchezza del paese. Questo vale soprattutto negli States.

In Europa le diseguaglianze non sono ancora così nette e marcate, ma si vedono soprattutto nella sanità: chi è ricco si può curare prima e meglio. Questa pandemia, che ancora oggi stiamo attraversando, deve farci riflettere. Farci capire che non possiamo farci trovare impreparati. La storia già ci ha fatto capitare una situazione simile e qualcosa è stato fatto, ma poi gli interessi economici hanno preso il sopravvento.

Siamo ritornati nel pantano.

In primis lo Stato non può delegare la sanità alle sole regioni, e poi intervenire nelle emergenze.

Non si può esternalizzare le prestazioni mediche dandole ai privati e, lasciare le terapie intensive ai minimi termini. Lo Stato deve riprendere il controllo delle emergenze attraverso la sanità pubblica.

Inoltre, lo Stato deve strutturare il suo stato sociale al fine di garantire una maggiore inclusione dei cittadini nel garantire i servizi essenziali sia in situazioni ordinarie che in quelle emergenziali.

E solo così che ne beneficeremo tutti.

Daniele Carelli